L’occasione di questo scritto mi è data dalla recente nomina di Sua Ecc.za Mons. Víctor Manuel Fernández a Prefetto del Dicastero per la dottrina della fede. È noto come egli abbia contribuito alla stesura della contestata esortazione apostolica Amoris laetitia[1]; la sua nomina ha provocato sgomento in molti ambienti cattolici (basta fare una ricerca in rete per trovare articoli di blog che non solo mettono in discussione le affermazioni del neo-prefetto nel campo della teologia morale, ma anche la sua presunta copertura di sacerdoti implicati in scandali sessuali[2]).
Ho ricevuto da un amico, anch’egli sgomento, l’invito ad ascoltare un’omelia del nostro Presule, tenuta durante la S. Messa da lui celebrata presso la Cattedrale di La Plata, il 5 marzo 2023[3].
E in effetti ho potuto constatare come detta omelia contiene affermazioni devastanti per la morale naturale e cattolica: traduco dal minuto 24:43.
“Non cambia nulla se non imparo a guardare la loro bellezza al di là del loro aspetto, delle loro capacità, del loro orientamento sessuale, qualunque esso sia, se non imparo a guardare al di là di tutto, non posso finire per amarli così come sono, che mi piaccia o no.
Così ogni fratello e ogni sorella valgono più di ogni cosa su questa terra.
Sapete che per molti secoli la chiesa è andata in un’altra direzione senza rendersi conto che stava sviluppando tutto nella filosofia e in una morale piena di classificazioni per classificare le persone per mettere etichette su di loro questo è questo è questo… è questo può ricevere la comunione questo non può ricevere la comunione questo può essere perdonato questo può essere perdonato… è terribile che questo sia successo a noi nella chiesa… grazie a Dio Papa Francesco ci sta aiutando a liberarci da questi schemi”.
Queste osservazioni si collocano su una certa dialettica, tornata oggetto di ampio dibattito soprattutto dopo Amoris laetitia e altri interventi di Papa Francesco, per cui si contrappone la valutazione morale caso per caso da un lato, e, dall’altro, la casuistica, disprezzata come insieme di risposte preconfezionate per tutti i casi.
Se possiamo trovare delle esagerazioni nelle vecchie raccolte dei casi di coscienza, nelle quali per altro si sono esercitati grandi moralisti (es. cercare di determinare il momento della Messa dirimente l’aver assolto il precetto o meno, la distanza che un prete non in stato di grazia dovrebbe percorrere per andare confessarsi, tale da esentarlo dall’obbligo di confessione prima della Messa, etc.), la polemica in realtà si fonda su un problema molto più serio: le azioni umane possono essere ricondotte a generi e a specie?
Il problema è serio, perché questa riconduzione è condicio sine qua non per sostenere l’esistenza degli assoluti morali[4], cioè di azioni che, se compiute con piena avvertenza e deliberato consenso sono sempre peccato.
Per questo motivo, ritengo utile analizzare la portata delle affermazioni di Mons. Fernandez.
1. Possono coesistere Caso per caso e morale oggettiva?
Uno slogan ecclesiale assai diffuso soprattutto dopo Amoris laetitia, ma riesumante più vecchi errori precedentemente condannati dal Magistero, suona in questi termini: «Oggi non si può più parlare di atti intrinsecamente cattivi, ma bisogna valutare ogni azione sempre e solo caso per caso»[5].
La seconda parte della suddetta affermazione potrebbe sembrare ineccepibile, ed è così, purché non la si veda contraddittoria rispetto all’affermazione degli assoluti morali.
Un buon confessore, fedele al Catechismo della Chiesa Cattolica, non risponde o non valuta il penitente secondo un ferreo schema logico se… allora, proprio perché ogni uomo ed ogni situazione sono un qualcosa di irripetibile ed unico; necessariamente egli compie una valutazione caso per caso.
Ma ciò non si oppone al fatto che esistono delle azioni che sono sempre peccato, indipendentemente dalle circostanze (naturalmente se queste azioni sono compiute in piena libertà, cioè con piena avvertenza e deliberato consenso).
Se in qualche modo non si potessero classificare i generi di peccato, cioè se gli atti umani non potessero essere considerati come di una determinata specie morale, San Paolo non avrebbe potuto scrivere: “…non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio”[6].
Come conciliare, dunque, il principio del caso per caso con la morale dell’oggetto e con la riaffermazione che esistono atti che sono sempre peccato?
Che conseguenze derivano da questa eventuale conciliazione?
Per cercare di rispondere a queste domande, articolerò questo scritto nel seguente modo: vedremo innanzi tutto le analogie che intercorrono tra un atto umano e l’ente materiale. Quindi vedremo come la moralità dell’atto umano dipende radicalmente ed essenzialmente dalla verità del soggetto agente, e solo accidentalmente dalla situazione in cui un soggetto si trova ad agire. Infine, cercheremo di trarre delle conclusioni, rispondendo così alle nostre domande iniziali.
1. Analogie che intercorrono tra un atto umano e l’ente materiale creato
1.1 L’essenza dell’ente
Quando oggi diciamo “il cane e il cavallo sono i più fedeli amici dell’uomo” e quando Plinio il Vecchio, duemila anni fa, diceva altrettanto[7], parliamo degli stessi animali oppure di realtà diverse? E quando un bambino che sta apprendendo a parlare dice “babau”, intende lo stesso cane descritto dall’antico scienziato?
Perché, dopo quasi duemila anni, possiamo parlare della stessa realtà con lo stesso termine?
La ragione è perché il cane ha un’essenza, una natura, che non esiste in sé, ma è realmente partecipata in tutti i singoli cani.
Queste essenze, che Platone collocava nell’iperuranio, sono virtualmente presenti in Dio, prima di essere partecipate all’ente creato: analogamente al modo in cui una casa preesiste nella mente di un architetto, rispetto alla stessa casa a lavori ultimati.
Dio, che ha fatto tutto “con misura, calcolo e peso”, ha in sé l’ordine e la misura di ogni essenza[8].
Ed è secondo questa misura che Dio partecipa l’essere nell’atto creativo e sostentativo degli enti.
Le cose sono vere, perché sono adeguate, ancor prima di esistere, all’intelletto divino.
La conoscenza umana è dunque una partecipazione di queste verità eterne.
L’uomo, pur percependo soltanto i singoli soggetti per mezzo dei sensi, coglie l’essenza delle cose mediante l’astrazione, ovvero separando l’oggetto percepito da tutto ciò che è contingente e che potrebbe non essere; ovvero separando l’ente creato dalla materia, dal moto e dal tempo.
Così, proseguendo con l’esempio sopra riportato, quando l’uomo percepisce un cane particolare, separa la percezione ricevuta dai sensi dalle dimensioni del cane stesso, dal suo colore, dal tempo in cui quel cane vive o è vissuto: in altre parole da tutto ciò che è accidentale.
Anche un bambino, che chiama il cane goffamente con qualche sillaba (babau), compie questa astrazione, e chiama con quella parola farfugliata tutti cani che ha occasione di incontrare.
1.2 L’essenza di un atto
L’uomo è in grado di cogliere anche l’essenza di un atto umano: il motivo è che il volontario perfetto consiste nel volere compiere una certa azione in quanto ordinata a un fine: esistono enti che si muovono in quanto mossi da altri enti (le cose inanimate), enti che si muovono da se stessi senza poter considerare il fine ultimo e la loro azione ordinata allo stesso fine (gli animali, più agiti dall’istinto che agenti), e l’uomo che considera e delibera una certa azione in vista del fine ultimo, che è la beatitudine.
Questo ragionamento pratico non può essere compiuto se l’intelletto non coglie l’essenza dell’atto, se non ne astrae ciò che permette di valutare se esso è ordinato al fine o meno.
L’oggetto dell’atto è l’atto considerato non nella sua materialità, ma in quanto ordinato al fine ultimo; in base a questa ordinazione, l’atto assume la ragione di bene (ratio boni)[9].
Questa assunzione di ragione di bene è come una nuova forma aggiunta all’atto puramente materiale, e quindi realmente lo specifica e lo fa partecipare di un genere.
Ora, poiché ogni atto valutato moralmente ha una essenza, esso si può paragonare a una sostanza, in quanto questa è essere partecipato in una forma. E le circostanze dell’atto sono analoghe agli accidenti di un ente materiale. Così spiega San Tommaso:
“…anche il termine circostanza è passato al campo degli atti umani dalle cose esistenti nello spazio. Ora, parlando di un corpo localizzato, si denominano circostanti quelle cose che, pur essendo estrinseche, tuttavia lo toccano e gli sono localmente vicine. Perciò tutte le condizioni che sono fuori dell’essenza dell’atto, e che tuttavia riguardano in qualche modo l’atto umano, sono denominate circostanze. Ma quello che riguarda una cosa ed è fuori dell’essenza di essa è un suo accidente. Dunque, le circostanze degli atti umani sono da considerarsi loro accidenti” [10].
Quindi, come l’essenza di un cane è la stessa in ogni luogo e in ogni epoca, così – se esistono nel tempo e nello spazio i singoli adulterî – esiste una sorta di essenza dell’adulterio, “fornicazione con persona sposata con altri”, essenza che è partecipata a tutti gli adulterî, in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
2. Bontà dell’atto e verità del soggetto agente
A questo punto dobbiamo chiederci su che cosa di fonda l’essenza di un atto, ovvero la dimensione immutabile di ciò che, in quanto azione, appartiene piuttosto al divenire che all’essere.
Abbiamo visto che l’atto umano è quello che è compiuto liberamente in vista del fine: ogni atto umano è compiuto in vista della beatitudine, e il fine ultimo muove la causa efficiente dell’atto, che è la libera volontà, pre-mossa da Dio e nel contempo sostenuta in essere come non determinata da nessun ente finito, quindi moralmente libera.
Ma l’azione di un ente in vista del fine non è assolutamente non specificata e neppure ha infinite potenzialità, ma è sempre secondo la forma dello stesso ente; se diciamo che la natura è il principio dell’operazione, ogni operazione è necessariamente secondo la natura da cui procede.
Ad esempio, il fuoco non potrà che scaldare, perché la sua natura è quella di essere massimo calore.
E siccome l’uomo agisce liberamente in vista del fine, liberamente potrà agire secondo la sua natura, che è quella di costruire in sé l’immagine di Dio liberamente e tramite ogni atto.
Questi concetti sono bene espressi all’inizio della I-II della Somma teologica di San Tommaso:
“La prima cosa da considerare sull’argomento [la morale] è il fine ultimo della vita umana, la seconda saranno i mezzi che permettono all’uomo di raggiungerlo: infatti dal fine dipende la natura di quanto al fine è ordinato”. (Iª-IIae q. 1 pr.)
Ma…
“Come insegna il Damasceno, si dice che l’uomo è stato creato a immagine di Dio, in quanto l’immagine sta a indicare «un essere dotato d’intelligenza, di libero arbitrio, e di dominio sui propri atti» perciò, dopo di aver parlato dell’esemplare, cioè di Dio e di quanto è derivato dalla divina potenza conforme al divino volere, rimane da trattare della sua immagine, cioè dell’uomo, in quanto questi è principio delle proprie azioni, in forza del libero arbitrio e del dominio che ha su se stesso”. (Iª-IIae pr.)
In base a quanto detto, la proposizione “L’atto mi conduce al fine ultimo” equivale a “l’atto è confacente alla mia essenza tanto quanto, mediante detto atto, posso realizzare in me l’immagine di Dio”.
E così possiamo dire che l’uomo è fatto per essere fedele al proprio coniuge, e questa verità è essenziale e non può essere validata caso per caso; l’uomo è fatto per pensare e dire la verità, e quindi non potrà mai mentire… l’uomo è fatto per amare e salvaguardare la vita, e quindi non potrà mai uccidere l’innocente, e così via per tutti gli assoluti morali.
Conclusione
Ricapitolando, ogni atto umano ha una causa efficiente (grazia/premozione fisica e volontà umana sostenuta in essere da Dio creatore e provvidente moralmente libera), una causa materiale (l’atto particolare, “ipsa substantia actus absolute”), una causa formale (la forma della volontà da cui l’atto procede[11], che fa sì che esso possa essere secondo la natura umana in quanto immagine di Dio) e una causa finale (la beatitudine).
Ciò che dunque fonda la realtà dell’essenza morale di un atto è la sua conformità alla verità sull’uomo e quindi il giusto orientamento al fine ultimo.
Le circostanze non mutano la sostanza dell’atto, perché sono come accidenti; talvolta una circostanza sembra che muti l’atto, ma, in tal caso, non è propriamente una circostanza, ma si tratta di un’altra specie di atto.
Voler eliminare ogni categorizzazione degli atti umani, rientra in ciò che Pascal descriveva con le parole Chi vuol far l’angelo fa la bestia[12]: il rifiuto dei generi degli atti umani – cioè pretendere di valutare l’atto nella sua precisa singolarità – conduce inevitabilmente a una sorta di nominalismo morale, quindi a un radicale scetticismo e relativismo, dove la valutazione morale dipende sostanzialmente più dalle passioni[13] che dalla ragione; oppure dall’attribuzione alla propria coscienza, orgogliosamente creatrice, del pieno possesso della conoscenza (e determinazione arbitraria) del bene e del male.
È noto l’assioma della filosofia naturale: “Dei singoli enti in quanto tali, non c’è conoscenza né definizione”[14]: e così si deve pure dei singoli atti umani.
San Paolo, quando afferma “non giudico neppure me stesso”[15], ci insegna ad evitare la pretesa di valutare moralmente un atto con l’esattezza propria della demonstratio more geometrico; e quando lo stesso Apostolo ci dice di esaminare la nostra coscienza per non essere rei del corpo e del Sangue del Signore[16], ci invita a cogliere l’essenza dei nostri atti e di confrontarla con la legge divina, con la sua relazione con il fine ultimo, considerando se, avendoli compiuti, “sia formato Cristo” in noi[17].
Questa santa incertezza assoluta, pur accompagnata da una certezza morale, è ciò che ci permette di ben confidare in Dio circa la nostra salvezza, “perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor 1,29), “ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria” (Rom 10,3), poiché “nella speranza noi siamo stati salvati” (Rom 8,24).
D’altro canto, le categorie morali ci vengono in aiuto perché la libertà a cui siamo chiamati “non divenga un pretesto per vivere secondo la carne” (Gal 5,13).
Postilla: In nomine adulterii
È noto il detto latino, sintesi estrema di ogni nominalismo, “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (“La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”) [18].
Potremo riassumere il nominalismo della morale estrema del caso per caso in una sentenza analoga: Stat adulterium pristinum nomine, nomina nuda tenemus (l’adulterio [la bugia, l’omicidio, etc.] in sé esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi). Di fatto questa è la vera premessa di tutte le eresie che seppelliscono gli assoluti morali.
Alla suddetta frase, contrappongo un verso di Romeo and Juliet di William Shakespeare: “What’s in a name? That which we call a rose, / By any other name would smell as sweet” (“Cosa vi è in un nome? Quella che chiamiamo rosa non cesserebbe d’avere il suo profumo dolce se la chiamassimo con altro nome”)[19].
Anche se all’adulterio cambiamo nome, o ci rifiutiamo di chiamarlo così, esso puzzerà sempre di peccato. E se chiamiamo “matrimonio”, magari anche benedicendolo in chiesa, un’unione tra persone dello stesso sesso, essa non profumerà mai come una rosa, non avrà mai “il profumo di Cristo” (2 Cor 2,15).
[1] Cf. S. Magister, «“Amoris laetitia” ha un autore ombra. Si chiama Víctor Manuel Fernández», https://tinyurl.com/preview/fernandez-amoris-laetitia, sito visitato il 4-7-2023.
[2] Ad esempio cf. «Campeones del abuso: once curas denunciados y protegidos por el Arzobispado de La Plata» https://www.laizquierdadiario.com/Campeones-del-abuso-once-curas-denunciados-y-protegidos-por-el-Arzobispado-de-La-Plata, sito visitato il 4-7-2023.
[3] https://www.youtube.com/live/-6kE6WpOZb0?feature=share
[4] Così Giovanni Paolo II afferma: “Si è giunti conseguentemente al punto di negare l’esistenza, nella rivelazione divina, di un contenuto morale specifico e determinato, universalmente valido e permanente: la Parola di Dio si limiterebbe a proporre un’esortazione, una generica parenesi, che poi solo la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di determinazioni normative veramente «oggettive», ossia adeguate alla situazione storica concreta. Naturalmente un’autonomia così concepita comporta anche la negazione di una competenza dottrinale specifica da parte della Chiesa e del suo Magistero circa norme morali determinate riguardanti il cosiddetto «bene umano»: esse non apparterrebbero al contenuto proprio della Rivelazione e non sarebbero in se stesse rilevanti in ordine alla salvezza. Non vi è chi non veda che una simile interpretazione dell’autonomia della ragione umana comporta tesi incompatibili con la dottrina cattolica”; Lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 37, sottolineato redazionale.
[5] Cf., ad esempio, Lorenzo Bertocchi, «Kasper: Divorziati risposati, il Papa ha aperto la porta», La Nuova Bussola Quotidiana, 26-04-2016, https://tinyurl.com/kasper-divorziati, sito visitato il 4-7-2023.
[6] 1 Cor 6, 9-10.
[7] Plinio il vecchio, Historia naturalis 142 “Ex his quoque animalibus, quae nobiscum degunt, multa sunt cognitu digna, fidelissimumque ante omnia homini canis atque equus”.
[8] “Per il fatto che Dio crea con sapienza, la creazione ha un ordine: «Tu hai disposto tutto con misura, calcolo e peso » (Sap 11,20)”; Catechismo della Chiesa Cattolica, § 299.
[9] “Ciò che poi si rapporta in modo quasi materiale all’oggetto della volontà e qualunque cosa voluta, ma il carattere dell’oggetto viene completato dal carattere del bene” (“Illud autem quod se habet materialiter ad objectum voluntatis, est quaecumque res volita: sed ratio objecti completur ex ratione boni”); S. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 1 d. 48 q. 1 a. 2 co.
[10] “Et inde est quod nomen circumstantiae ab his quae in loco sunt, derivatur ad actus humanos. Dicitur autem in localibus aliquid circumstare, quod est quidem extrinsecum a re, tamen attingit ipsam, vel appropinquat ei secundum locum. Et ideo quaecumque conditiones sunt extra substantiam actus, et tamen attingunt aliquo modo actum humanum, circumstantiae dicuntur. Quod autem est extra substantiam rei ad rem ipsam pertinens, accidens eius dicitur. Unde circumstantiae actuum humanorum accidentia eorum dicenda sunt”; Summa Theologiae, Iª-IIae q. 7 a. 1 co. In S Tommaso troviamo l’espressione “ipsa substantia actus absolute”, per indicare la pura materialità dell’atto, che sta come l’essere alla forma in una sostanza materiale: senza la valutazione morale non si coglie l’essenza di un atto (e allora fornicazione e atto matrimoniali sarebbero identici): ma una considerazione puramente materiale non coglie la sostanza morale, per cui un atto allora si può considerare appartenente a un genere; Super Sent., lib. 4 d. 16 q. 3 a. 1 qc. 2 ad 2: “Alcuni atti per il loro genere sono cattivi e buoni, e quindi dallo stesso genere dell’atto si può assumere la circostanza dell’atto morale. Ciò però in base a cui l’atto viene riscontrato in tale genere sebbene sia della sostanza dell’atto dal punto di vista morale tuttavia è fuori della sua sostanza secondo che si considera la stessa sostanza dell’atto in modo assoluto: per cui alcuni atti si identificano nella specie naturale e differiscono nella specie morale: come la fornicazione e l’atto matrimoniale”(“Ad secundum dicendum, quod aliqui actus ex suo genere sunt mali vel boni, et ideo ex ipso genere actus potest sumi circumstantia actus moralis. Hoc autem ex quo actus reperitur in tali genere, quamvis sit de substantia ejus inquantum est ex genere moris, tamen est extra substantiam ipsius secundum quod consideratur ipsa substantia actus absolute; unde aliqui actus sunt idem in specie naturae qui differunt in specie moris; sicut fornicatio et actus matrimonialis”).
[11] “Forma voluntatis producentis actum” Super Sent., lib. 1 d. 48 q. 1 a. 2 co. Se l’atto è buono, è informato dalla carità.
[12] “L’homme n’est ni ange ni bête, et le malheur veut que qui veut faire l’ange fait la bête” Blaise Pascal, Pensées, (557 ed. Sellier, 678 ed. Lafuma, 358 ed. Brunchvicg, 572 ed. Le Guern). In effetti, solo l’atto morale di ciascun angelo al momento della prova a cui furono posti al momento della loro creazione è un atto particolare valutabile specificatamente caso per caso.; ma l’uomo non è un angelo.
[13] Le passioni non astraggono, ma hanno solo oggetti particolari, reagendo al loro stimolo adeguato, necessariamente ed esclusivamente, caso per caso.
[14] “Singularium nec est scientia, neque definitio” Les Auctoritates Aristotelis. Un florilège médiéval. Étude historique et édition critique. Éd. J. Hamesse. Philosophes médiévaux, tome XVII. Louvain publications universitaires: 1974. p. 130.
[15] 1 Cor 4,3.
[16] Cf. 1 Cor 11, 27-28.
[17] Cf. Gal 4,19.
[18] Variazione del verso I, 952 del poema in esametri De contemptu mundi di Bernardo di Cluny (XII sec.).
[19] Atto II, scena 2, vv. 47–48.