Commento teologico al Canto I dell’Inferno (Divina Commedia)

Commento teologico al Canto I dell’Inferno (Divina Commedia)

OSSERVAZIONI AL CANTO I

L’adombrare il traviamento morale dell’uomo nel perdersi ch’egli fa in una selva oscura è concetto scritturale e insieme filosofico. Chi si dilunga dalla via luminosa del vero e del retto, si perde tra le tenebre dell’errore e del vizio, in una aspra selva, in cui quanto più l’uomo s’ira, tanto più s’inviluppa: degradato dalla nobiltà di natura ragionevole e fatto schiavo del senso, di fa vita comune colle bestie, che hanno stanza nella selva. Questa selva simbolo dello stato infelice de peccatori è una per tutti, come una, secondo il Vangelo, è la via che conduce a perdizione; che però basterà a Beatrice dire a Virgilio, che Dante è impedito nella diserta piaggia (c. II, t. 20), perché, senz’altro, sappia tosto quegli dove recarsi. Il Poeta non parla d’altri che si trovino come lui perduti nella selva, senza negarlo nondimeno, anzi implicitamente affermandolo (c. I. v. 27): ma avendo assunto se stesso a simbolo dell’uomo traviato e pentito, non aveva mestieri di far menzione d’altri in particolare.

La selva oscura, senza un fil di sole, e lo stato dell’anima, che o ha perduta la fede, o più non se ne serve per operare. Nondimeno la selva termina a piè del colle dilettoso irraggiato dal sole, che è la sede della virtù e della vera gioia. Perché cosi vicini i due estremi? Perché è sempre possibile coll’aiuto divino, che mai non manca e, se si voglia, è anche presto ed istantaneo il passaggio dal male al bene.

In tale selva egli trova del bene ; perché quando Dio si avvicina e chiama il peccatore, è con lui nella selva.

L’uomo nella selva, albergo proprio delle belve, abita in casa non sua, ma di feroci padroni: i quali non è meraviglia che oppongano contrasto alla sua uscita. Cosi fan le passioni, lottando colla retta ragione e le ispirazioni di Dio. Dante non parla che di quelle passioni, le quali a lui ed ai peccatori del suo tempo contrastavano in modo particolare il ritorno sul retto sentiero. Poiché le passioni seducendo lusingano ed allettano, si domanda, perché Dante dica d’averne al contrario sentita paura. Chi fa questa domanda, non deve aver mai internamente lottato. Quando la parte ragionevole risolve alla fine di vivere secondo virtù, nella guerra, che intraprende colle passioni, necessariamente accade, che la parte sensitiva, in cui han sede le passioni, commossa da queste provi diletto: ma appunto perché il senso prova diletto, la ragione si spaventa, temendo di perdere il bene già cominciato ad acquistare, col prestarvi libero consenso. E questo è il caso di Dante e di chiunque è da lui simboleggiato.

Ora il modo di opporre contrasto alle passioni e trionfarne, taluno forse crederebbe, che sia l’armadio investirle direttamente e pugnar subito con esse, diciam cosi, corpo a corpo. Ma l’impresa è ben difficile. Il mezzo ordinario si è, farsi prima sulla considerazione del danno cui arrecano le passioni secondate, del bene che ci aspetta, se coraggiosa mente lottiamo e cosi concepire odio al peccato e maturarlo bene in cuore col fermo proposito di non volere perdere i beni eterni, preparati a quelli che servono Dio. Di tal fatta l’animo armato avrà forza e coraggio per venire alle prese colle passioni e soggiogarle. E questa è la ragione del consiglio di Virgilio (t. 38): nė deve esso credersi in opposizione colla domanda fatta innanzi: ma tu… perché non sali ecc.? Imperocché con tali parole non intende Virgilio fargli animo a salire il monte, essendo anzi appunto venuto per condurlo altrove, ma solo farlo riflettere alla difficoltà dell’impresa.

Il cammino della virtù Dante lo ha simboleggiato nella salita d’un erto colle; perché è arduo e penoso alla nostra fiacca natura. Il Redentore ha salito innanzi a noi il colle del Calvario e invita tutti a pigliare ciascuno la sua croce e tenergli dietro: che però ben può essere che questo dilettoso monte e dilettoso perché principio e cagione d’ogni bene, sia, secondo l’ intenzione del Poeta, il Calvario. Dante nol può tosto ascendere, prima d’avere confortato l’animo colla meditazione delle eterne pene e degli eterni godimenti. Quando la sua volontà sarà ben conforme alla divina (Parad. XXXIII,143 seg.) allora calcherà sicuro le orme di Cristo.

Che importa nel contrasto della lonza l’indicazione del tempo? moltissimo, atteso il senso simbolico. Il sole allora era in Ariete e perciocché si teneva il mondo creato al principio di Primavera, dice, che il sole saliva con quelle stelle , ch’eran con Lui, quando Dio ebbe formato il mondo. Il Poeta non dice, che il Sole entrasse allora nella Costellazione suddetta , ma che era con quelle stelle. Dal c. XXI. impareremo che il mattino di cui qui parla , è il mattino del Venerdì Santo. Siamo dunque nella settimana santa, presso alla Pasqua, e lungi alquanto dall’equinozio, essendo nell’anno 1300 caduta la Pasqua il 10 aprile. Dante pone il suo viaggio all’altro mondo l’anno del Giubileo, a cui egli stesso forse intervenne. Tanto dunque è detto per indicarci il tempo pasquale. Or ciò moltissimo rileva, secondo il detto nell’ Introd. §. 1. Questo è il tempo molto a proposito per collocarvi la conversione sua e degli altri traviati al suo tempo : che però finge egli d’essere uscito della selva il Venerdì santo mattina che era il giorno commemorativo della Redenzione. Tutto ciò, come ognuno vede, dovea fargli coraggio e dargli speranza di tener testa alla passione almeno più vile. Pur volendo ciò significarci allegoricamente, dice che l’ora mattutina e la dolce stagione gli erano cagione di sperar bene di quella fiera ; perché in tal ora ed in tale stagione, scosso ogni torpore, ci sentiam più invigoriti e pronti alla lotta.

Ma quando Virgilio, detto che ei fu già uomo, a quel povero perduto, che con tanto affetto gli si raccomandava, viene tranquillamente sciorinando la sua genealogia, quali fossero i suoi parenti, qual la patria d’ambidue e ch’ei nacque sub Iulio, ma tardi e dove visse ; con fesso di sentire un certo disgusto. Che importava a quel meschino
saper la genealogia di colui che gli compariva, ch’egli era di parenti lombardi e proprio tutti due mantovani? Lascio, che lombardi è anacronismo inutile: quando si soggiunge mantovani. Si comincia a vedere, che la vena del Poeta di quando in quando si stanca e che non dobbiam prometterci di trovar nel suo Poema quella uguaglianza non mai smentita di bellezza nella forma, quale si ammira ne’ classici antichi.

Per contrapposto belli sono i versi e care le parole, che Dante risponde a Virgilio: lode senza adulazione del Maestro e modestia del Poeta, che non si vergogna confessarsi suo discepolo e debitore.

Altro bel sentimento è l’espresso da Virgilio alla t. 43. Cosi dovea
parlare quell’anima diseredata: quanta mestizia in quelle parole oh felice colui, cui ivi elegge! Dante l’ha compreso e ci fa intanto pensare alla nostra felicità.
Come, ciò nulla ostante, potesse Virgilio farsi guida al Poeta in questo viaggio soprannaturale, l’abbiamo detto nell’Introd. §. 4 parlando di Virgilio, in fine.

Questo primo canto col seguente è tale introduzione al Poema, che ne è parte e parte essenziale. Potran dirsi questi due canti estrinseci all’Inferno: ma sono intrinseci a tutto il Poema, né credo che alcuno ne dubiti. L’uno e l’altro contiene la ragione di tutto quel che segue,
ne fornisce il concetto morale e l’ intrinseco scopo e n’è quindi il necessario principio. Senza essi non s’intende quel che non di rado dirà Virgilio: volersi cosi colà dove si puote ciò che si vuole e muoverlo virtù del cielo. Nė s’intende il ringraziamento, che porgerà in Paradiso a Beatrice lo stesso Poeta. Il Poema ancora dovea dirci la cagione di questo fatto soprannaturale, qual è il viaggio del Poeta nel mondo eterno, che è cosa al tutto straordinaria: essa ci è manifestata nel secondo canto, è la donna gentile in Cielo, è Maria, le cui parole suppongono quel che è descritto nel primo canto. Il viaggio al secolo immortale è un favor di Maria , da lei comincia (Inf. II t. 34) e per lei si compie (Par. XXXIII. t. 8 9). Che però i primi due canti formano col resto del Poema un tutto di perfetta unità, qual è quella che congiunge ragione e ragionato, mezzo e fine, causa ed effetto.

Che i due primi canti siano stati aggiunti dopo, io non lo credo nė veggo ragione di cosi pensare: ma fosse anche vero, ciò nulla rileva.

Noi giudichiamo del lavoro, qual fu dall’autore pubblicato, del lavoro, a giudizio del medesimo, compito, non de’ primi tentativi od abbozzi, cui ci volle nascosti, perché ancor lungi dalla perfetta espressione del suo pensiero.

Testo tratto da: D. PALMIERI, Commento alla Divina Commedia di Dante Alighieri, Vol. I, L’Inferno, Prato: Giachetti 1898, pp. 167-170.